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Il coraggio, si sa, è un ingrediente indispensabile per vincere le battaglie della vita, sia in pace che in guerra. Anche se, a conti fatti, il più delle volte serve molto più in pace che in guerra; molto più nei complicati rapporti con gli amici (o parenti!) che con i cosiddetti nemici.
Il coraggio e, qualche volta, la fortuna. Artemisia di Alicarnasso, tiranna e condottiera, navarca di una flotta tutta sua, di coraggio ne aveva da vendere. Nei giorni in cui l’esercito del re persiano Serse annientava l’eroica resistenza di Leonida alle Termopili grazie al tradimento di un disertore, lei, al comando delle sue navi, si batteva nella battaglia di Capo Artemisio che, come racconta Erodoto, non ebbe né vinti né vincitori anche se, sempre facendo i conti, i persiani perdettero un numero di navi e di uomini di gran lunga superiore alle perdite greche. Sta di fatto che in quella battaglia Artemisia si fece talmente notare che Serse ne fece un simbolo di coraggio fra i complimenti verdi di tutti gli altri navarchi della sua flotta mentre i greci, tanto per non essere da meno, posero sul suo capo una taglia di 10.000 dracme. La gloria conquistata sul mare fece di Artemisia una preziosissima consigliera del re al quale, senza mezzi termini e contro il parere di tutti gli altri navarchi, consigliò di non affrontare altre battaglie navali con i greci perché nello stato in cui si trovava la sua flotta non avrebbe avuto scampo. Serse apprezzò molto il consiglio di Artemisia che aveva, soprattutto come donna, dimostrato una maggiore sensibilità nel consigliargli la soluzione meno cruenta ma, come pare, fra i persiani vigevano le regole della democrazia e la maggioranza decretò di affrontare le navi nemiche in quella passata alla storia come la battaglia di Salamina. Erodoto racconta per filo e per segno tutti i fatti e gli antefatti che culminarono in questa battaglia elencando, uno per uno, gli equipaggi, gli armamenti e i comandanti che vi parteciparono. Artemisia, malgrado il suo parere contrario, si gettò ovviamente nella mischia e il grande storico greco ci racconta gli esiti dello sposalizio fra il coraggio e la fortuna che permise ad Artemisia di uscirne fuori col massimo degli onori. Nell’eccitazione della fuga l’intrepida navarca persiana speronò una nave alleata causandone l’affondamento e prendendo così, forse senza avvedersene, i classici due piccioni con una fava. Il primo di questi piccioni fu il navarca greco che scambiò la nave speronante una nave nemica per una nave amica desistendo immediatamente dall’inseguirla rinunciando, senza rendersene conto, alle 10.000 dracme e il secondo, molto più consistente, fu Serse in persona che seduto su un trono, all’ombra di una tenda intessuta d’oro, osservava dall’alto di un monte lo svolgersi della battaglia. Il re, come narra Erodoto, riconoscendo le insegne della nave di Artemisia non ebbe alcun dubbio che la nave speronata e affondata fosse una nave nemica. La fortuna, il più delle volte maligna, fece in modo che tutto l’equipaggio affogasse insieme al legno speronato e che nessuno di loro potesse perciò testimoniare il contrario. Dopo che i persiani vennero sconfitti, così come aveva previsto Artemisia, il re non poté fare a meno di convocarla nuovamente al suo cospetto per chiederle cosa si dovesse fare. Artemisia, che ormai con il re parlava papale papale, gli consigliò di ritornarsene in Persia lasciando sul posto soltanto qualche generale vanaglorioso che volesse portare a termine la campagna militare di terra. Con il racconto di come Artemisia venne prescelta quale accompagnatrice della famiglia di Serse nel ritorno in patria, Erodoto la perde del tutto di vista. Chi la nomina ancora è un certo Tolomeo Efestione che narra di lei una specie di tragedia greca che finisce addirittura con il suo suicidio. L'illustrazione è stata realizzata in grafica vettoriale con il programma Corel Draw. |